Friday, January 30, 2009

TIFOSI CELEBRI - Seconda Puntata

Il nostro secondo Tifoso Celebre non c'è più.
Ma resta un tifoso celebre.

Oggi dedichiamo la rubrica a MANILO SCOPIGNO, allenatore campione d'Italia col Cagliari nel 1970 e considerato il "filosofo del calcio". Lo Yogi Berra italiano.

Tratto da: www.storiedicalcio.altervista.org, www.wikipedia.it, www.gazzetta.it.


Con la sua aria da grande dis­sacratore, la sua passione per il whisky e il viscerale anticonformismo, Scopigno ha attraversato il calcio italiano co­me un visitatore alieno, combat­tendone con nonchalance i luo­ghi comuni più efferati. E riu­scendo a passare alla storia per aver abbattuto quello più resistente, cioè la supremazia dei grandi club metropolitani - Ju­ventus, Inter e Milan - nel più lontano avamposto della pro­vincia del pallone, la Sardegna.
Lo chiamavano "il filosofo" e nessuno ricordava più l'origine di quel nomignolo: perché gli ba­stava farsi scivolare addosso un'intervista per passare per un cerebrale dissacratore, un cultore amabile del paradosso. Ne aveva per tutti, sibilando sentenze col suo filo di voce, lasciandola fil­trare come il filo di fumo della sua immancabile sigaretta.
Ma al di là delle battute, c'era la so­stanza di un allenatore capace di precorrere i tempi.
Si vanta­va di aver fatto la rivoluzione abolendo i ritiri e responsabiliz­zando i giocatori.

A Cagliari, per vincere, spostò gli allenamenti al pomeriggio e assecondò il clima riducendo la fatica infrasetti­manale al minimo indispensabi­le.
E aveva dialogo coi giocatori, con quel filo di voce che poteva diventare tagliente cazziatone ma il più delle volte si compiace­va di fare strage degli errori con una semplice battuta. Ebbe Riva, e vinse.
Quando non lo ebbe più, per via della gamba immolata al­la Nazionale, smise di vincere, ma il suo Cagliari per anni fece paura alle grandi, perché era squadra nel vero senso del termi­ne, costruita attorno a concetti moderni, ancorché mai strom­bazzati per via di quel carattere alieno dalla facile pubblicità.
I giocatori universali, un suo pal­lino ante litteram, insomma, pri­ma che l'Olanda anni Settanta contagiasse tutti.
E le punte in movimento, i tourbillon avan­zati, il centravanti fallito Nené scoperto sensazionale creatore di gioco.

Filosofo, in qualche mo­do, era stato davvero, sia pure in sedicesimo. Manlio Scopigno era friulano, di Paularo in pro­vincia di Udine, ed era nato cal­ciatore, in un'epoca che non ga­rantiva certezze di sorta.
Così giocava e studiava, appunto filo­sofia. Aveva cominciato nel Rie­ti, dove viveva la famiglia, Serie C e poi B. Dopo tre stagioni era passato alla Salernitana tra i ca­detti e infine al Napoli, il gran salto in A, a ventitré anni. Fino a un brutto pomeriggio del cam­pionato 1951-52, Napoli-Como, un 7-1 che fece epoca.
In quella partita Scopigno segnò la penul­tima rete del Napoli, poi un mo­vimento falso gli costò un terri­bile incidente a un ginocchio. La diagnosi, per l'epoca, era quasi senza speranza: rottura dei lega­menti.
Due anni di viavai tra il campo di allenamento e la clinica, poi la decisione di lasciare il calcio.
Così la ricordava lui, con l'aria disincantata della maturità: «Io non ero quel che si dice una tem­pra di combattente. L'incidente mi capitò a 26 anni, nel pieno della carriera, e siccome la par­te vitale per un calciatore sono le gambe, il mio morale affondò nel vicino Golfo.
Ero distrutto, tant'è che non frequentai più neppure la facoltà. Ero iscritto a Filosofia, all'Università di Ro­ma, fin dai tempi in cui giocavo nel Rieti. Andai alla deriva. Niente calcio e niente studi per due lunghi anni. Con il calcio ben presto fui stufo di lottare. Tra l'altro, già da sani costituisce un sacrificio affrontare le rinunce quotidiane. Se uno è onesto, deve dimenticare di avere un suo cer­vello, condizionando tutto al vo­lere della società e dell'allena­tore. Figuriamoci se appena ap­pena uno non è fisicamente a po­sto.
Ed io, con quel maledetto incidente, ero irrimediabilmente finito. A quel punto mi posi que­sta alternativa: mi laureo o fac­cio l'allenatore? Alla laurea pensavo come all'ultima risor­sa, perché uno quando perde il ritmo dello studio è difficile pos­sa riacquisirlo. A meno che non rinunci a tutto il resto.
Dopo due anni di alti e bassi la mia gamba era guarita. Tornai a Rieti e mi accordai con i dirigenti della società locale per fare l'allena­tore-giocatore».


Pochi anni di ti­rocinio, poi, a Vicenza, la grande occasione. Come tecnico in se­conda prese lezioni da Lerici, uno specialista della provincia e quando nel gennaio 1962 lo stes­so Lerici volò via a cavalcioni di un siluro.
Scopigno si giocò alla grande la carta della salvezza. Assicurò ai biancorossi quattro stagioni di vita tranquilla, con la sua apparente pigrizia e la vi­sta lunga dalla panchina Molte partite del Vicenza le ha vinte lui con intuizioni geniali» ricor­dava Sergio Campana, giocatore alle sue dipendenze).
A Bologna ebbe meno fortuna, per il male­detto vizio di ignorare le conve­nienze sociali e la diplomazia e soprattutto certe amicizie politi­che della dirigenza. Una notte, un fattorino del presidente Gol­doni gli recapitò un biglietto di licenziamento.
Lui lesse e, senza muovere un sopracciglio, sus­surrò il suo commento: «Ci sono due errori di sintassi e un con­giuntivo sbagliato».
Qualche an­no dopo, al cronista che gli chie­deva se sarebbe tornato a Bolo­gna, rispondeva: «Sì, con un ae­reo da bombardamento». Di lì a poco, lo chia-mava il Cagliari, per il prologo della grande avventu­ra.
Già, il prologo, perché il ro­manzo ebbe una trama singolare.

Dunque, anno di grazia 1966, Scopigno arriva a Cagliari, dove ci sono il giovane Riva e una Se­rie A conquistata da appena due anni da difendere con le unghie e coi denti. Macché semplice sal­vezza, il nuovo arrivato studia l'ambiente, studia Riva, ne asse­conda la riottosità agli allena­menti mattutini (il grande Gigi dormiva come un ghiro prima dell'ora di pranzo) e costruisce una super squadra.
Sposta Riva centravanti puro, accentrando­ne i compiti, e porta la squadra a insidiare le grandi. Purtroppo, il grande Gigi immola una prima gamba alla patria, contro il Por­togallo, e il Cagliari chiude al se­sto posto. Ci sono malumori in seno alla so­cietà, qualche dirigente mandato cordialmente a quel paese se l'è legata al dito e aspetta solo il mo­mento.
Che arriva in giugno, il Cagliari negli Stati Uniti in tournée, qualche screzio per i premi partita e un ricevimento dal console italiano a Chicago. Scopigno beve un whisky di trop­po e quando chiede del bagno, gli indicano scherzosamente un cespuglio in giardino: detto e fatto, il tecnico viene immortalato men­tre fa pipì en plen air.
La cosa fa un discreto rumore e quando tor­na in patria, Manlio Scopigno ri­ceve il Seminatore d'oro come miglior allenatore di A e dal Ca­gliari la lettera di licenziamento.
Non resta proprio disoccupato, però. Il presidente dell'Inter, An­gelo Moratti lo prega di restare a disposizione per via di certe bizze di Herrera e gli passa un regolare stipendio per tutta la stagione.
In­fine, da Cagliari, dopo averne av­vertito forte la mancanza soprat­tutto quanto a punti in classifica, lo richiamano. Torna tra i suoi ra­gazzi in rossoblu e riannoda im­mediatamente il filo del successo. Conquista un clamoroso secon­do posto e poi lo scudetto nel 1970, con la squadra di Albertosi e Nené, Crearti e Riva. E Niccolai, lo stopper celebre per le auto­reti, su cui poche settimane dopo, nel corso dei Mondiali in Messi­co, se ne uscirà con una delle sue battute classiche: «Tutto mi sarei aspettato dalla vita, tranne vedere Niccolai in mondovisione!».
L'impresa è di quelle epiche. Met­te in fila gli squadroni grazie a una squadra mobile, compatta, sempre fresca nonostante il clima. E vince lo scudetto da... dietro una recinzione. Proprio così.
Il 24 di­cembre 1969 il giudice sportivo lo squalifica per cinque mesi per aver rivolto alcuni apprezzamenti particolarmente icastici a un guar­dalinee nella partita col Palermo di nove giorni prima. Un bel rega­lo di Natale. Scopigno parla di un banale malinteso, ma il Cagliari non ha santi in paradiso e la squalifica viene scontata per inte­ro. Persino la festa dello scudetto, il 12 aprile 2 -2 con la Juventus ("La Juve è a un punto? Beh se il regolamento non cambia lo scudetto lo vinciamo noi."), se la gusta in mezzo al pubblico e non dalla panchina. E anche in quell'occasione due battute celebri. In occasione dell'autorete di Niccolai pare dica: "Bel Gol". E alla fine, quando Cera gli chiedono quanto manca, lui fumando fa: "A cosa?". La sera stessa alla Domenica Sportiva alla domanda "chi è veramente Scopigno", risponde pacato "uno che in queto momento ha sonno".

Purtroppo, un nuovo infortunio di Riva gli toglierà un secondo scudetto e la possibilità di giocarsi fino in fondo la chance in Coppa dei Campioni. Quando se ne va da Cagliari, il meglio del­la carriera se ne è andato e lui non è tipo da inseguire gli ingaggi.
Lo chiama la Roma per la stagione 1973/74, ma l'avventura si conclude ben presto: quattro sconfitte, interrotte solo dalla vittoria contro il Verona, e appena quattro punti nelle prime sei giornate.
Anzalone lo esonera, lui come al solito nonfa una piega.
La breve avventura romanista è da ricordare fu il primo a fare fiducia al diciottenne Agostino di Bartolomei che fece esordire contro il Bologna
In­fine torna a Vicenza: non evita la retrocessione e nella seconda sta­gione una strana malattia lo co­stringe a letto per alcuni mesi. Quando ritorna, è bruciato. Nessuno lo chiama più.
Scriverà commenti intrisi di veleno e ma­linconia, fino al settembre del '93, quando il secondo infarto nel giro di poche settimane se lo porterà via, nell'ospedale di Rieti, la cit­tadina di famiglia.

Qualche esempio dello humor del tecnico del Cagliari Scopigno. A tarda sera il tecnico sorprese alcuni giocatori del Cagliari che alla vigilia di una partita di Coppa Italia giocavano a carte e fumavano. Scopigno entrò nella stanza e disse: "Do’ fastidio se fumo?". Dopo mezzora tutti a letto e l’indomani vittoria per 3-0. Al presidente Rocca che gli comunicava l’esonero a telefono: "Faccia presto, ho la minestra in tavola, non vorrei che si raffreddasse". A Martiradonna: "Con un cognome così non giocherai mai in Nazionale, se ti chiamassi Martin, saresti titolare fisso". "Vincere uno scudetto a Cagliari equivale vincerne 5 a Milano o Torino. Me lo ha detto Domenghini che a Milano c’è stato e ce lo ripeteva sempre per far capire che lui era uno importante". A Boninsegna che si era presentato in smoking all’allenamento del martedì mattina a Cagliari, reduce dal canervale di Venezia: "Almeno i coriandoli dalla testa potevi toglierli".


"Nel calcio il più pulito di tutti è il pallone. Quando non piove."

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